Il viaggio segue una linea verticale, da Sud a Nord, come se l’avessi tracciata con una riga su una carta geografica. Una riga diritta che collega due mari che fanno parte dei confini opposti dell’Europa.
Un percorso, si può pensare oramai, solo per grossi tir o per treni a lunga percorrenza, adesso che prendiamo la mattina un volo lowcoast dall’aeroporto più vicino a casa e ci sediamo ad un caffè di Valencia o di Vilnius nel pomeriggio.
Per questo viaggio, invece, occorre tempo e pazienza per lunghe ore d’autostrada, attenzione nel guardare.
Ma si può risalire l’Europa e percepire le leggere sfumature del cambio delle culture, capire quali sono le differenze che ti portano dal profumo del lentisco ai grigi alti dei cieli del Nord.
Il mio viaggio è iniziato prima dell’alba, una domenica, tanto presto che, quando sono arrivata al Po, le piantagioni regolari di pioppi erano ancora sospese tra lo sfumato biancore della nebbia bassa della prima mattina ed il chiaro leggero del giorno appena iniziato.
Ho deciso di fermarmi a Bellinzona per conoscere meglio il sistema difensivo dei castelli del Ticino.
A Nord di Faido, i rilievi montuosi alpini si alzano a lato dell’autostrada, tra piccole vigne aggrappate a pendii vertiginosi e tra alte cascate gonfie d’acqua, che sgorgano come per magia dalle pareti rocciose. Nella valle, a lato del tracciato autostradale, centrali dell’azienda elettrica ticinese del primo novecento mostrano facciate con decori geometrici .
Dopo il traforo del Gottardo si entra nella terra di Uri e subito mi rendo conto che, nel tunnel appena percorso, avevo valicato il confine di culture e di storie lunghe millenni.
Mi attende il lato orientale del lago di Lucerna, verso Schwyz, molto più scenografico di quello occidentale e, con una piccola deviazione, la sequenza dei laghi alpini di Interlaken, ognuno di un colore diverso e la stretta valle di Vals, nei Grigioni, dove il tempo sembra fermo ad ere geologiche antiche.
Lasciata Basilea, dopo le forti emozioni montane, il tratto germanico, piatto e monotono sembra perfetto per riacquistare calma visiva ed interiore e nuove energie per il viaggio.
Una sola sosta a Friburgo per sedersi dentro la cattedrale gotica ed alzare lo sguardo verso quel mirabile gioco di ingegno architettonico che sono le sue volte.
Un lungo canale fiancheggiato da due filari di grandi platani mi segnala che sono a Strasburgo, è la Francia del basso Reno, delle lunghe chiatte verso l’Europa centrale, delle facciate in pain de bois, del senso più forte dell’appartenenza all’Europa, delle istituzioni e dei consigli.
Il paesaggio dopo Strasburgo è meno piatto, mi stupisce il rosa intenso delle pareti di gres e la terra quasi viola delle Vosges, una passerella in legno scuro sopra l’autostrada taglia il cielo con un arco teso, eleganza e raffinatezza per cervi erratici. Nell’aria c’è qualcosa di dolce e di aspro insieme, di Francia e di Germania, l’Alsazia.
Poi il cielo diventa più ampio, sterminate distese di colza gialla accendono di luce un campo dopo l’altro, fino all’orizzonte di un grigio di piombo pesante. Il cielo sembra pesare di più della terra.
Sotto si apre una lama di rame del sole che scende e tutto sembra orchestrarsi in una sequenza logica, grandi giacimenti metalliferi, le piccole case dei minatori, tutte uguali come ingranaggi di una gigantesca macchina che aggrappa il cielo, ossidi liquidi dell’aria densa del tramonto.
Sarreguemines, Forbach, Niderviller,sono i nomi delle città minerarie, di banchi sedimentari di limonite, di maioliche.
Nel leggero ondeggiare della Lorena arrivo più velocemente a Metz.
La città viene annunciata da una sequenza di stagni con acque ferme e silenziose e tutto sembra ricomporsi in ordinati contorni tra boschi scuri e pascoli omogenei.
Scorgo dietro colline basse i tetti d’ardesia nera dei primi villaggi del Lussemburgo, scintillano agli ultimi raggi del sole come specchi di petrolio liquido, lucenti come penne remiganti di grossi corvi.
Questi tetti mi danno il benvenuto ogni volta che arrivo nel Granducato ed anche questa volta mi sento ben accolta.
Riprendo l’autostrada per il Belgio il giorno dopo, sotto un cielo pesante, sopra di me nuvole basse ed immense, che sembrano restare sospese per non so quale mistero.
Qui, nel Nord c’è più cielo che nel Mediterraneo e non so se mi devo sentire più fragile e persa o più fortunata per poter avere così tanta volta celeste sulla mia testa.
Un cartello mi annuncia che sono nelle Ardenne e mi è inevitabile ricordare che, su queste terre di bassi rilievi e di foreste rarefatte, si sono svolte cruente battaglie della seconda guerra mondiale e quante vite umane si sono sprecate per assurde manovre belliche.
E, quasi per un arcano destino di coincidenze, comincio a scorgere sul lato della corsia di destra un numero sproporzionato di corpi di volpi morte, travolte nella notte appena finita.
Ne conto una decina, ma dopo qualche chilometro sono già più di venti e non mi spiego questa strage.
Colpita nell’anima, Bruxelles arriva in un attimo e non riesco a rasserenarmi se non molto dopo, davanti agli splendidi ricami della facciata gotica dell’Hotel de Ville.
Il giorno successivo, esco presto, come ogni mattina di un lungo spostamento, ma questa volta il tragitto sarà breve, ho fretta di arrivare alla destinazione dopo questo lungo percorso.
Forse spinta dall’attesa, sento già nell’aria un leggero odore di sale, come sospinto nell’entroterra da una leggera corrente d’aria orientata dall’estuario della Schelda.
Grazie ad essa, Anversa, contemporaneamente, si affaccia sul Mare del Nord ma ne è anche protetta dagli 80 km di foce.
Il fiume, nel suo ultimo tratto si trasforma in un immenso porto che fece la fortuna di questa città sin dal medioevo.
Acque grigie come metallo ed il fiume che sembra già un braccio di mare da quanto è largo, mi riposo affacciata su questo belvedere, su bacini di carenaggio e velieri a riposo, verso rotte lontane e stive zeppe di legname, di caucciù, di diamanti e di ori d’oriente.
La musica che mi ha accompagnato durante il viaggio.