L’esposizione dedicata ai Bianchi di Carlo Zauli presenta una selezione di opere scultoree in gres ceramico realizzate dall’artista durante oltre vent’anni, dagli anni ’60 sino alla metà degli anni ’80.
Tali opere sono da sempre considerate le opere maggiormente rappresentative della produzione artistica di Carlo Zauli.
Esse sono caratterizzate da uno smalto per gres ad alta temperatura unico nel suo genere e irriproducibile che l’artista creò e mise a punto personalmente dosando componenti chimici e metallici, capaci, nel loro specifico mix e dosaggio, di assumere infinite sfumature passando dal bianco a tutte le tonalità di grigio, sino ad arrivare al nero o a virare al rosso-bruno.
Nel 1984 Carlo Zauli, scultore da sempre legato fortemente al materiale ceramico, nello scrivere di sé e del proprio lavoro dirà: “Sono un uomo che ama profondamente un “grumo” di argilla, che vuole vitalizzarlo, dargli piano piano forma, più vita, esaltando e riordinando i suoi infiniti ritmi e le misteriose tensioni che in esso si nascondono…”.
Il grumo di argilla di cui Zauli parla è parte di quella terra che, in ogni accezione del termine, egli pone al centro della propria vicenda artistica e che, simbolicamente, rappresenta la vita stessa.
A partire dal 1972, dopo aver realizzato con l’argilla opere di stampo squisitamente geometrico e dalle superfici armoniose e levigate, Carlo Zauli inizia a dibattere sul difficile rapporto tra uomo e natura facendo emergere la ruvida e immediata forza generatrice della Terra, a testimoniare la necessità da parte dell’uomo di ritrovare con essa un rapporto fondato su valori primigeni ed archetipi.
(…) “non si comprenderebbe appieno la storia della plastica del Novecento se non si considerassero come fondamentali alcuni protagonisti che sono ricorsi a tale mezzo. Diciamo pure almeno da Martini in poi, e passando naturalmente per Fontana e Leoncillo. Figure capitali, coi loro linguaggi plastici personalissimi e della più viva attualità, e i richiami segreti, vorrei quasi dire ancestrali che mantengono intatta la suggestione per il mito della natura e appunto della terra, la ‘grande madre al cui grembo l’uomo è fatalmente legato fino a reimmergervisi nell’estremo ritorno, in un perenne ciclo biologico’. Ecco allora quello che risulta forse il punto centrale della poetica – nel senso appunto etimologico del ‘fare’- di Zauli: la terra come naturalità. Ma si comprende bene che naturalità non significa affatto naturalismo, almeno così come convenzionalmente lo si intende. Si tratta piuttosto di un equivalente visivo carico di rimandi, di memorie culturali, di assonanze linguistiche, ma al tempo stesso denso di implicazioni psicologiche. E’ in questo che si può cogliere il dato più precisamente autobiografico, in quanto rivelatore di una sensibilità ancora alimentata da radici storiche e di una spiccata peculiarità, si diceva, anche geografica. E dunque queste particolarissime inflessioni che s’avvertono nel suo lavoro, non fanno che rendere più complesso il registro dei richiami al ‘naturale’, tradotti in una propensione immaginativa che fa tutt’uno con una progettualità e una consapevolezza formale di indubitabile respiro europeo”.
(Claudio Spadoni, 2007)